Il caso dell’uomo a cui negli USA stavano per espiantare gli organi, da vivo, conferma la necessità di rivedere i criteri della “morte cerebrale”, che sollevano serie preoccupazioni etiche e scientifiche. Preoccupazioni aggravate dall’odierno clima eutanasico.
Negli scorsi giorni è venuto alla ribalta negli Stati Uniti il caso molto preoccupante di un uomo di cui era stata dichiarata la morte cerebrale e che doveva essere sottoposto – in quanto donatore di organi dichiarato – ad una procedura di espianto, cioè di prelievo di organi a cuore battente, ma che poco prima che i chirurghi lo aprissero ha dato chiari segni vitali e di risveglio. L’ufficio del procuratore generale del Kentucky ha dichiarato che ora stanno esaminando questo caso, verificatosi tre anni fa.
Quando i medici dell’ospedale si dovettero arrendere all’evidenza che non potevano prelevare gli organi da una persona che aveva gli occhi aperti, lo dimisero dall’ospedale, dicendo alla sorella che non sarebbe sopravvissuto a lungo. A distanza di tre anni, Anthony Thomas Hoover è vivo, sta bene, e pertanto la sorella ha deciso di raccontare questa storia che fa riflettere.
Il 25 ottobre 2021, Hoover era stato portato d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale Baptist Health Richmond a seguito di un’overdose di droga, e il giorno successivo i medici dissero a sua sorella Donna che i riflessi e l’attività cerebrale di suo fratello erano cessati. Gli venne quindi tolto il supporto vitale e, una volta verificato il suo status di donatore di organi registrato, vennero avviate le procedure per l’espianto degli organi. Durante una di queste procedure, un cateterismo cardiaco, Hoover si risvegliò, «dimenandosi sul tavolo», come venne dichiarato da uno degli operatori presenti. I medici dissero che si trattava di semplici «riflessi nervosi involontari», e disposero che fosse effettuata una sedazione e si procedesse con l’intervento.
Tuttavia, nei minuti seguenti venne interrotta la procedura, perché il presunto “morto” mostrava troppi segni di vita. Fu comunicato dunque alla famiglia che il soggetto «non era pronto». Infine, l’ammissione che non c’era alcuna morte cerebrale, e quindi le dimissioni del paziente.
La sorella è venuta a conoscenza di questi dettagli solo recentemente, a gennaio di quest’anno, quando la dottoressa Nyckoletta Martin, specialista in donazione di organi, che all’epoca lavorava con Kentucky Organ Donor Affiliates, l’ha contattata. Lei e altri testimoni si sono fatti avanti appunto quest’anno, con le loro testimonianze.
Commentando l’accaduto, il dottor Seth Karp, chirurgo capo presso il Vanderbilt University Medical Center ha detto che «non è infrequente che succeda qualcosa al donatore, relativamente al fatto che sia morto o meno». Un dettaglio non propriamente secondario. «Il problema è che abbiamo avuto 40 anni in cui non c’è stata alcuna supervisione sulle Opo (Organizzazioni per l’approvvigionamento di organi)», ha concluso.
Un portavoce di Network for Hope, una delle suddette organizzazioni deputate a ciò che viene indicato con questo termine piuttosto inquietante, ha rilasciato una dichiarazione, specificando che «un’organizzazione per l’approvvigionamento di organi non è coinvolta nella cura del paziente e non dichiariamo la morte. Le Opo hanno l’autorità di procedere con il recupero dalla donazione di organi solo dopo che l’operatore sanitario indipendente di un paziente ha dichiarato la morte».
Da parte sua, l’ospedale Baptist Health Richmond, dove Hoover era stato ricoverato, ha dichiarato che il personale «lavora a stretto contatto con i nostri pazienti e le loro famiglie per garantire che i desideri dei nostri pazienti per la donazione di organi siano seguiti».
Casi come quello di Anthony Hoover devono fare attentamente riflettere sulla prassi utilizzata da anni per il prelievo di organi destinati a trapianti, una finalità che indubbiamente è prevista per salvare la vita a malati gravi. Tuttavia, questa necessità non deve portare a procedure quantomeno affrettate, come in questo caso. Alla luce dell’evoluzione delle conoscenze delle neuroscienze e delle tecniche di rianimazione, i criteri con cui viene stabilita la cosiddetta “morte cerebrale” devono essere rivisti. Le procedure attuali sollevano serie preoccupazioni etiche, oltre che scientifiche, su ciò che dovrebbe essere certo e permanente, ovvero la morte della persona. Tuttavia, a questo aspetto dibattuto da molto tempo nella comunità scientifica (vedi qui e qui), si aggiunge una ulteriore preoccupazione: nel crescente clima eutanasico in cui siamo immersi, si sta assistendo al fenomeno di un tentativo di influenzare le decisioni di morire in modo da poter donare organi. Un gesto estremo paludato di pseudo-umanitarismo: muori facendo una buona azione. Una sorta di “mors mea vita tua”. Dal 2016 al 2021, almeno 155 persone in Canada hanno donato i loro organi e tessuti dopo una procedura di eutanasia o suicidio assistito.
Se è vero che gli espianti a cuore battente, in situazione di cosiddetta morte cerebrale, hanno trovato la principale motivazione nel concetto di “dona dopo la morte”, una prospettiva ulteriore potrebbe essere in futuro quella di decidere la propria morte al fine di provvedere all’approvvigionamento di organi.
Paolo Gulisano
https://lanuovabq.it/it/espianti-affrettati-di-organi-i-criteri-vanno-rivisti